I sapori della mia vacanza in Corsica: Favone e la zona sud-orientale

La scorsa estate ho trascorso una vacanza di due settimane in Corsica, presso una solitaria località balneare della costa sud-orientale: un pugno di abitazioni sparse e un paio di residence discreti e silenziosi, ben mimetizzati nella natura sovrana dall’apparenza selvatica e arruffata.

Appena fuori dalla nostra struttura – il residence U Veniqui: sobrie casette monopiano ben distribuite e seminascoste nella vegetazione – la vena sottile di un’unica strada, la route nationale 198, lambiva l’arenile da un lato e un minuscolo spaccio accostato a un ristorante dall’altro, spostando sporadici flussi di autovetture verso le destinazioni più importanti del sud; oppure indietro, verso nord, in direzione di Solenzara e del porto di Bastia, distante un centinaio di chilometri.
Il mare da quelle parti si raccoglie nell’ansa dell’ampia baia di Favone dando vita, nei frequenti giorni di bonaccia, a una distesa di cristallo turchese la cui limpidezza, trafitta dallo zenit del meriggio, riverbera colmando l’aria di una luce traboccante. Ma l’ile de beauté non è solo una collezione di lunghi litorali digradanti nelle profondità marine con una lentezza talvolta esasperante; a caratterizzarla non concorrono soltanto l’aspro granito delle maestose guglie di Bavella o le inquietanti figure dei Calanchi di Piana (per la verità, trovandosi questi ultimi sul lato opposto dell’isola, spero di poterli conoscere di persona la prossima volta); la Corsica, né italiana né  francese ma forse, per colpa o merito della storia, un po’ entrambe nella sua orgogliosa specificità, è anche terra di sapori che riassumono il carattere delle grandi scuole succitate; va presto chiarito, però: senza quasi mai eguagliarne i vertici fondamentali. Soprattutto (questa è stata l’impressione maturata durante i miei due viaggi) in ambito enologico.

Il cibo

Data la struttura prevalentemente montuosa dell’isola, a padroneggiare la gastronomia sono le pietanze di tradizione montanara: numerosi e saporitissimi i formaggi di “brebis”, di pecora. Ne ho provati di stagionati e di più freschi, preferendo i primi ma gradendo anche i secondi, dei quali ho fatto scorta per consentire ad amici e parenti di assaggiarne al mio ritorno: il loro gusto pungente, deciso, ha riscosso un gran successo anche fra i più scettici.

Altro animale largamente diffuso è il maiale, allevato in uno stato semiselvatico al punto da rendere possibile al turista imbattersi in branchi al pascolo lungo le strade dell’interno. A me è accaduto due volte sulla via che da Solenzara mena verso Sarténe attraversando le foreste dell’Alta Rocca: prima di Zonza siamo rimasti fermi una buona mezzora a prendere fotografie di una decina di placidi esemplari intenti a ispezionare l’asfalto con somma disinvoltura, il grosso muso protruso puntato a terra.

E allora ecco apparire in tavola salami e insaccati d’ogni foggia e dimensione, salsicce morbide da spalmare sul pane, oppure stagionate ed arricchite con spezie saporite. Il lonzu, poi, è “la” prelibatezza locale: filetto di maiale disossato, preparato con vino ed erbe aromatiche e poi essiccato. Lo si consuma crudo, come il prosciutto, ma è più gustoso, e con la crosta appena piccante: giuro che a scriverne mi sale l’appetito. Anche il cinghiale trova ampio utilizzo nella produzione di charcuterie. Un giorno, mentre discorrevo con mia moglie a proposito degli insaccati di un piccolo supermercato a Solenzara, qualcuno mi ha rivolto la parola nell’italiano stentato e quasi comico – un dialetto dell’Italia meridionale d’altri secoli – cui la lingua corsa rassomiglia; era un signore dall’aspetto grezzo e un po’ dimesso: «Questo è buono» ha cercato di dirmi, facendomi capire poco dopo che quanto avevamo davanti, quelle salsicce scure in parte appese oppure disposte all’interno di piccoli cesti di paglia, erano opera sua: roba genuina, di puro cinghiale (80%, come riportato in etichetta) proveniente dai monti dell’Alta Rocca situati alle spalle del negozio. Lui si trovava lì proprio per consegnare nuova merce, e poco dopo avrebbe provveduto personalmente a riporla negli espositori seguitando a commentare il nostro accento e facendomi notare come ci intendessimo a meraviglia, grazie al fatto che l’idioma corso discenderebbe da certi dialetti italiani. Io non ho avuto l’impressione di una comunicazione tanto fluida, ma ho apprezzato quando lui, alla mia domanda se i corsi si sentissero davvero cittadini francesi, ha risposto con una lunga e sonora risata. Prima di salutarlo gli ho chiesto di consigliarmi un salame di cinghiale più stagionato rispetto a quelli che avevo rinvenuto fino a quel momento; mi ha risposto che il cinghiale resta per sua natura morbido, e che, insomma, andava bene così.

Prima di passare ai beveraggi un accenno lo devo ai Canistrelli, i tipici biscotti rintracciabili in ogni spaccio, grande o piccolo, in decine di versioni. Io preferisco quelli all’anice, forse i più tradizionali; ma se ne trovano alla mandorla, al cioccolato, al limone, al vino bianco… oppure “nature”. Ho provato un paio di marche orientandomi infine sul biscottificio Restonica, il cui nome celebra l’omonima valle situata a settentrione presso Corte, sede delle famose e anch’esse omonime “gole” (ho avuto modo di visitarle durante il mio primo viaggio): fragranti e leggeri, l’anice tinge il sapore di una nota esotica e stuzzicante che non riesce a stancarmi.

Le bevande

Sul tema alcool gli argomenti sono numerosi. Cominciamo con ordine, dagli aperitivi.
In Corsica, come nel sud della Francia, è comune il Pastis. Di origine, pare, marsigliese costituisce una delle numerose bevande a base di anice diffuse nei paesi del bacino mediterraneo, come la Sambuca, l’Ouzo (greco) o l’Arak (bevuto in Libano e in alcune zone del Medio Oriente presso le comunità cristiane). Non si tratta invece di un parente stretto del Pernod, che deve il nome all’azienda produttrice ed il sapore alla distillazione (anziché alla macerazione) di varie piante. Il Pastis lo si beve dopo averlo diluito con un volume d’acqua pari a circa 5 volte, ciò che contribuisce a renderlo meno alcolico (siamo altrimenti sopra i 40°); ma si può aggiungere anche menta oppure granatina per formare semplici ed efficacissimi cocktail, definiti rispettivamente perroquet o tomate. La prima delle due varianti è rimasta in cima alla hit-parade dei drink a casa mia per diversi mesi sino ad oggi, ed anche Il Girovago ha avuto modo di berlo ed apprezzarlo.

Come il nome lascia intuire, più strettamente indigeno è invece il Cap Corse, la cui reputazione pare sia giunta sino in Francia continentale: si tratta di un vino (può essere rosso, rosato o bianco, ma il rosso è più diffuso) aromatizzato con frutta od erbe varie, fra cui, pare, anche china e scorze di arancia amara. ho acquistato quello dell’azienda Mattei, trovandolo gradevole pur non avendomi fatto urlare alla rivelazione: certo è migliore se allungato con parecchio ghiaccio.

Lo ammetto: prima della partenza a stuzzicare la mia curiosità era stata soprattutto la birra Pietra (del resto parte di quanto non ancora sperimentato). Avevo letto della sua fermentazione “a partire da un miscuglio di malto e farina di castagne” (gli innumerevoli castagni dei boschi corsi: retaggio della dominazione genovese), ma non sapevo cosa aspettarmi. Alla resa dei conti l’ho trovata oltremodo amara e blanda, più adatta a serate fra adolescenti che a competere con le grandi birre belghe che nello stesso periodo, appena fresche e assai corpose, troppo spesso imperversavano sulla nostra tavola. Ma non si possono paragonare i fischi coi fiaschi, e pertanto mi riservo di degustarla nuovamente un giorno, se Dio lo vorrà, in condizioni ottimali, e di recensirla a dovere sul presente blog.

Il vino corso, afferma certa letteratura, non è anch’esso paragonabile alle maggiori realtà italiane o francesi. Per quanto mi riguarda (ma ho un’esperienza minuscola in proposito) reputo questa affermazione fondamentalmente vera; sia la volta precedente che quest’ultima, ho avuto modo di assaggiare alcuni rossi della AOC Patrimonio certamente poco consistenti. Ma potrebbe essersi trattato dell’atmosfera, del caldo rovente della veranda dove prendevamo i pasti, che potrebbero avere pregiudicato la nostra serenità di giudizio (quest’ultimo sempre assolutamente personale ed amatoriale, non ci stancheremo mai di ribadirlo). Perché a dire il vero, un paio di mesi dopo in Italia, l’Ajaccio Domaine de Pratavone ha riscosso invece una fortuna maggiore, risultando un vino assai particolare e floreale, gradevole: un esperienza positiva con un prodotto degno della medaglia d’oro guadagnata all’Expo gastronomica di Parigi 2011 (ci auguriamo, però, in una competizione per categorie, riservata ad esempio ai soli vini corsi).

Un collega mi aveva chiesto di procurargli una certa bottiglia di rosé, il Corse Figari della cantina Jean-Baptiste de Peretti della Rocca, Cuvée Alexandra. Lui qualche anno addietro aveva fatto incetta di questo vino anch’esso meritevole di premio: la medaglia d’argento alla stessa manifestazione di cui sopra. Di ritorno dalla vacanza ne aveva portate a casa addirittura 12 bottiglie, talmente gli era piaciuto. A me invece è parso discreto ma non eccezionale, con un punto di forza nell’aspetto: la calura estiva della macchia mediterranea mi induceva del resto, laggiù, a preferirne la bottiglia madida di fresca condensa, di un rosa tenue ch’era in fondo un giallo appena ramato, piuttosto che il colore cupo dei cugini rossi più corposi. L’olfatto, poi, era di buona intensità, il gusto sapido e leggermente acidulo: caratteristiche tutto sommato più adatte al clima.
Ho provato anche un altro paio di rosati, per lo più dal sentore agrumato e anch’essi parecchio aciduli. Uno Chateauneuf du Pape bianco e un rosso Bordeaux me li sono invece portati a casa per degustarli appena possibile.

In frigo conservo tuttora una forma di pecorino ben stagionato, intonsa e sottovuoto; quando avrò terminato anche quella, del sapore di questa estate sarà rimasto soltanto un ricordo ancora più distante, e l’atmosfera di spiagge incantevoli perpetuata dalle immagini della fotocamera. Oltre a queste poche righe.

English version:

Last summer I spent a two week holiday in Corsica, at a lonely seaside town on the southeastern coast: a handful of scattered houses and a couple of discreet and quiet apartment, well camouflaged in the wild and disheveled-looking sovereign nature.

Just outside our accommodation – Residence “U Veniqui”: simple single-storey houses well distributed and hidden in the vegetation – the thin vein of one only road, the “Route Nationale 198”, brushed the beach on one side and a tiny shop next to a restaurant on other hand, moving sporadic flows of cars towards the most important destinations of the south.
The sea in these parts is collected in the bend of the broad bay of Favone creating, in the frequent days of calm, an expanse of turquoise crystal whose clarity, pierced from the zenith of the afternoon, reverberates and fills the air with an overflowing light. But l’ile de Beauté is not just a collection of long coasts sloping in the deep sea with a sometimes maddening slowness; to characterize it not only contribute the rugged granite spiers of the majestic Bavella or the unsettling figures of the “Calanchi di Piana” (for the truth , the latter being on the opposite side of the island, I hope to know them in person next time): Corsica, neither Italian nor French but perhaps, the fault or merit of the story, a little ‘both in its proud specificity, is also land of flavors that describe the character of the great schools above; be clarified soon, though: almost without ever achieving their tops. Above all (this was the impression I gained during my two trips) in winemaking.

Given the mountainous structure of the island, the master of the cuisine is the food coming from the mountain tradition: particularly numerous and tasty are the “brebis” (sheep) cheeses. I have tried seasoned and fresh ones, preferring the formers but also liking the latter, which I did spare to allow friends and family to taste them once back at home: their strong, pungent taste, was a great success even among the most skeptical.

An other widely spread animal is the pig, wildly bred enough to make it possible for tourists to come across herds grazing along the roads of the interior. To me it has happened twice on the way from Solenzara to Sartène, thorough the forests of “Alta Rocca”: just before Zonza we were still a good half an hour to take photographs of a dozen specimens peacefully intent to inspect the track, with their big bulging muzzle pointed at the ground.

Then there appeared on the table salami and sausages of all shapes and sizes: from the soft sausages to be spread on the bread, to the ones more seasoned and enriched with savory spices. “Lonzu” is “the” local delicacy: boneless pork tenderloin, prepared with wine and herbs and then dried. It is to be eaten raw like ham, but it is more tasty and spicy and with a little bit hot crust. The wild boar is also widely used in the production of “charcuterie”.

One day, while talking with my wife about the sausages in a small supermarket in Solenzara, someone asked me a word in that sort of broken and almost comical Italian – a dialect of southern Italy in other centuries – the Corsican language resembles to; “This is good” a man tried to tell me, letting me know after a bit that what we all what we had in front of us, all of those dark sausages hung or placed in small straw baskets, were his own handwork: something genuine, made of pure boar (80%, as shown on the label) directly from the mountains of the Alta Rocca located behind the shop. He was there to deliver some new products, and shortly afterwards he proceeded in person to put it in the exhibitors, keeping on commenting about our accent a letting me pay attention to how easily we were able to understand each other. That was, in his opinion, thanks to the fact that the course language would result from certain Italian dialects. I never had the impression of a really fluid conversation, but I liked his answer when I asked him whether the courses they feel to be really French citizens: a long and loud laugh.

In Corsica, as almost everywhere in the southern France, Pastis is a very popular drink. Originally coming from Marseille, it’s one among the many of anise-based drinks so common in nearly all Mediterranean countries, like Sambuca in Italy, Ouzo in Greece or Arak in Lebanon and part of the middle East. It’s not so close relative of Pernod, which owes its name to its producer and its taste to the distillation (instead of the steeping) of various plants. You drink the Pastis diluted with a volume of water equal to about 5 times, what helps to make it less alcoholic; but you can also add mint or grenadine to form simple and very effective cocktail (respectively the “perroquet” or the “tomate”).

As the name suggests, Cap Corse is a more native drink, but its reputation seems to be recently spreading also in the Mainland: it is a wine (can be red, pink or white, but red is more common) flavored with fruit or various herbs. I bought the “Mattei” one and found it quite good: it is certainly a lot better if diluted with ice.

 The course wine, says some literature, is not comparable to the leading Italian or French. As for me (but I have just a very small experience about it) I find this statement basically true. I tasted some of the red “Patrimonio AOC” certainly inconsistent. But it may have been the atmosphere, the searing heat of the veranda where we took the meals, which could have affected our liking. That’s because actually, a couple of months later in Italy, the “Domaine de Ajaccio Pratavone” got much more luck in our tasting being a very special wine, floral and pleasant: a positive experience with a product worthy of the gold medal earned at the “Culinary Expo Paris 2011” (we hope, however, in a competition for categories, such as solely reserved to course wines).

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