Qualcuno potrebbe legittimamente domandarsi cosa sia esattamente una tripel. Ne abbiamo già parlato, tuttavia lo ripetiamo volentieri. Lungi dal chiamare in causa fantomatiche “quantità di malto” doppie o triple, la definizione è propria delle birre d’abbazia, trappiste nella fattispecie, e risale ai tempi in cui l’analfabetismo diffuso costringeva i monaci produttori ad apporre un certo numero di “X” sulle bottiglie allo scopo di identificarne la tipologia. Tale tassonomia, basata sul binomio tenore alcolico/colore, si è protratta fino ai nostri giorni mutando l’originale numero di croci nella denominazione merceologica che troviamo apposta su ciascuna bottiglia “stile” abbazia; nonché, naturalmente, sulle trappiste autentiche (si contano nel mondo non più di una dozzina di birrifici/monasteri autorizzati a fregiarsi del logo esagonale che designa le vere “trappiste”, quasi tutti in territorio belga ad eccezione di un paio di realtà olandesi).
La suddivisione procede insomma come riassunto dal seguente schema:
– Blond: birra chiara dal tenore alcolico meno elevato.
– Dubbel: birra scura dal tenore alcolico meno elevato.
– Tripel: birra chiara di più alto tenore alcolico.
– Quadrupel: birra scura di più alto tenore alcolico.
Se ne ricava che la Westmalle oggetto della nostra attenzione non sarebbe altro che una birra chiara forte. “Tutto qui”. Fermo restando ovviamente che, peculiarità terminologiche e perizia monastica a parte, sempre di una ale ad alta fermentazione si tratta.
Veniamo però al quesito cruciale: l’aurea di misticismo etilico che circonda queste birre leggendarie trova giustificazione nella naturale tendenza verso il perseguimento di una perfezione organolettica, oltreché spirituale, da parte dei suoi religiosi produttori? O si tratterebbe piuttosto di suggestioni ricavate dalla consapevolezza di assaporare il frutto d’una loro dedizione inaspettatamente (e diremmo quasi “peccaminosamente”) mondana anziché rivolta al divino?
Realizzata dai monaci cistercensi dell’omonima abbazia di Westmalle nei pressi della città belga di Anversa, come in tutti i contesti trappisti anche la commercializzazione di questa Tripel muove da finalità non lucrative, dirette piuttosto al sostentamento dei frati e delle loro opere di beneficienza; tutti i processi di vendita e fabbricazione sono pertanto sottoposti alla rigida giurisdizione della comunità monastica.
Va bene, d’accordo, ma com’è (oppure, molto meglio, come ci è sembrata)?
D’aspetto biondo dorato, leggermente fosca ma per questo sin dal primo approccio genuinamente artigianale, presenta una schiuma chiara, cremosa e persistente. All’olfatto appare dolce di malto, caramellata, con rimandi di lievito e floreale; sentori cinerei tradiscono il piacevole e discreto apporto del luppolo, mentre al gusto ci sorprende una robustezza niente affatto muscolosa, una sorta di potenza sobria ed assennata che porta a comprendere perchè i religiosi si cibassero di birra in qualità di “pane liquido” durante i lunghi periodi d’austerità quaresimale. La progressione aromatica piacevolmente fruttata, adorna di sentori canditi, appare di gran lunga estesa, mentre la boccata stenta a rivelare l’importanza di una gradazione alcolica certo non indifferente (9,5°): meglio così. Nel finale tornano sensazioni dolci di zucchero caramellato, poco prima della chiusura giustamente amarognola e terrosa (dopotutto si tratta d’una birra!), un pelo più morbida rispetto al resto (ecco finalmente il grado etilico…).
Quasi perfetta per pulizia e definizione aromatica, morbida sì, ma non stucchevole e poco “vinosa” come spesso invece risultano talune birre forti (amiamo certamente il vino, ma ci piace mantenere distinte le caratteristiche varietali di ciascuna bevanda), appare pudica e morigierata, sebbene non austera: una sorta di brioso nutrimento per il corpo e per lo spirito.
In definitiva sobria ma appagante, rende giustizia all’ascetismo e alla temperanza che sovrintendono l’intera vità conventuale degli uomini guidati dall’antica regola di San Benedetto, quell’ora et labora che proprio i monasteri cistercensi tradussero per primi in uno stile di vita improntato alla misurata alternanza tra quotidiana concretezza e spiritualità.